C’è una vicenda, in questi primi quattro anni della Roma governata dal centrodestra, che più di ogni altra racconta le difficoltà della politica, ai limiti del masochismo, nell’ individuare l’ equo punto di ricaduta tra legittime rivendicazioni di parte e interesse diffuso: la vertenza taxi. Tutto iniziò nel 2008, all’ indomani della vittoria di Alemanno, quando parve scontato alle organizzazioni «tassinare» che avevano sostenuto «l’ amico Gianni» (incollando gli adesivi con il suo volto sulle portiere, parlando male ai clienti di Prodi e Rutelli, imprecando contro l’ assessore di turno per il traffico o le buche stradali) passare all’ incasso «tutto e subito». Lo fecero pretendendo, e ottenendo, aumenti tariffari mai visti: nella prima versione (inverno 2010, quando la crisi già mordeva salari e bilanci familiari) addirittura del più 65% sulle corse brevi. Fu un errore fatale, che la parte sana della categoria (quella che non «arrotonda» con le truffe) sta ancora pagando.
E già, perché il risultato della mancata mediazione (è vero che i tassisti votano, ma pure gli utenti sono elettori…) è stato la paralisi: le tariffe, nonostante le 27 sedute di consiglio comunale loro dedicate, sono rimaste immutate. Inchiodate al «prezzario» 2007 che a onor del vero, considerata la corsa folle dei carburanti, sarebbe stato logico aggiornare per dare un po’ di ossigeno alla categoria. Ma tant’ è. Il Campidoglio, tra delibere bocciate dal Tar e cortocircuiti burocratici come l’ istituzione di un comitato di «saggi» che ha impiegato mesi per fissare criteri che oggi tutti vorrebbero aggirare, non ha ancora portato a dama l’ infinita querelle.
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